lunedì 17 marzo 2014

Micco nella "magica" Soleto, tra macàre e coremme


 
Squadra "Micco". 

Cercatori: Serena, Cesà, Monica e Graziano. 

Narratore: Danilo.




"Macàre? Ma quali macàre? Una ne ho conosciuta, ma non era macàra: puttana e puttanazza era!". L'invettiva di Nonna Tetta lascia tutti e cinque senza parole: la domanda che candidamente le avevamo posto era sulle macàre, le fattucchiere salentine di cui la leggenda vuole che Soleto fosse la capitale. 

Alla casa di nonna Tetta e alla sua vigorosa invettiva contro le macàre (o meglio, contro le donnacce che si spacciavano per tali) arriveremo tra poco, dopo qualche giro contorto nella nostra perlustrazione di questo paese carico di storia che spunta nel bel mezzo del Salento con il suo centro antico e il suo manto di mistero, entrambi ancora ben conservati. 
 
Un tempo questa era una delle città più importanti della Grecìa Salentina, l'area ellenofona del Sud Italia. Ma Soleto ha soprattutto la fama di luogo magico, patria di alchimisti e fattucchiere. 

Leggenda deformata dai secoli o verità tramandata nel tempo? Ognuno può pensarla come più gli piace. Di certo tutto il paese è disseminato di simboli enigmatici e segni di storie antiche. 

Entriamo nella città vecchia attraverso la trecentesca porta di San Vito, unico varco superstite fra i quattro che si aprivano nelle enormi mura che la cingevano. 

Il monumento è illuminato dal sole radente delle quattro di pomeriggio di un marzo generoso, che sembra un anticipo d'estate.

La sfida con la squadra concorrente è sempre la stessa: trovare gli scorci più tipici e i personaggi più caratteristici. 


Gli scorci tipici sono tanti, dai vicoli contornati di palazzi bianchi che si affacciano sull'antico basolato fino ai circoli scalcinati nei quali - c'è da scommetterci - si svolge molta della vita sociale degli anziani del paese. 

A Soleto, poi, vige una tradizione diffusa in diverse comunità del Salento: qui le chiamano "Coremme", si tratta di pupazzi simili alle befane, poste sui balconi nel periodo della quaresima, da cui prendono il nome.

Scorci, vedute, tradizioni e monumenti, insomma, non mancano. Molto più dura, invece, sembra la ricerca di abitanti del luogo, con i quali entrare in contatto per conoscere meglio questa comunità: il centro storico è letteralmente deserto. Ci inoltriamo sulle stradine basolate guardandoci intorno, smarriti e un po' sconsolati. 

È Monica, stavolta, che sblocca l'impasse: se non c'è nessuno per terra, meglio alzare il naso per aria. E infatti è la prima a scorgere, affacciato al balcone, un ragazzo a cui chiedere indicazioni. 
"Siamo qui per le Coremme, sai dove possiamo vederne una?" gli grida dalla strada (e guadagna così 1 punto). 
Come direbbe Manzoni, lo sventurato rispose: "Ce n'è una proprio qui in fondo" dice, indicando con il braccio la direzione verso la quale inoltrarci. 

Ma faccia tosta e lingua svelta non mancano a Monica che, colta la palla al balzo, lo dice chiaro: "Stiamo giocando e siamo in una gara, ci inviti a casa tua a prendere un caffè?". 

Lui annuisce divertito: "Perché no? Un attimo e scendo ad aprirvi". 

Un caffè in casa vale ben 10 punti: la reazione che Monica manifesta a Cesà è, come si vede dalla foto, di sobria e composta soddisfazione.

Tutti ridono. E più di tutti ride Graziano, quando la porta al piano terra si apre e a fare gli onori di casa è un grazioso yorkshire, che ha tutta l'aria di volerci accogliere e farci accomodare in casa. 

Scopriremo, una volta entrati, che si chiama Peggy ed è la figlia naturale dell'altro cagnetto che troviamo in casa, Eva: entrambe sono "figlie adottive" del ragazzo che era affacciato al balcone e che ci ha aperto la porta dell'abitazione e alla sua fidanzata: lui si chiama Emanuele Ancora, lei Valentina Ramundo. Entrambi hanno poco meno di 30 anni e uno spiccato senso dell'ospitalità. 

Senza fare troppi complimenti, quindi, ci accomodiamo sul divano, fino ad allora occupato da due amici di Emanuele e Valentina, lì per guardare la  guardare la partita. 
"Io sono militare, in marina, sto a La Spezia - racconta Emanuele, mentre prepara il caffè - Se provate a farlo lì, questo gioco, voglio proprio vedervi. Trovereste solo freddezza e porte in faccia". 

"I salentini sono diversi" dice Cesà, mentre Serena, ormai impadronitasi della casa e della situazione, controlla il caffè e accarezza il cane. Tutti ridono, senza formalizzarsi: c'è aria distesa, in quella casetta del centro storico. Valentina tira fuori i biscotti (che per noi valgono altri 5 punti) e ce li offre insieme al caffè. Emanuele non è da meno e fa piovere sul tavolo succhi di frutta e bevande varie (altri 5 punti). L'accoglienza è calda e cordialissima, come se fossimo cresciuti insieme.

"Siamo abituati ad essere tanti - spiega Valentina- Sai cos'è? Io sono l'ultima di dieci figli, Emanuele lo stesso". 
Sbarriamo gli occhi, mentre prendiamo il caffè: "Venti figli in due famiglie?" domanda sbalordito Graziano. 
"Ci sposiamo il 14 agosto, ti mostro l'elenco degli invitati al matrimonio - dice Emanuele - solo fra genitori, fratelli e figli dei fratelli siamo 58. Stretti stretti, eh!"


Sarà per questo che i salentini sono così diversi (e ospitali) rispetto agli italiani del Nord: un po' le famiglie numerose, un po' i tanti popoli che sono passati da qui. E che hanno lasciato un segno profondo, anche a Soleto. 
Ma si sta facendo tardi: la Coremma ci aspetta. Salutiamo Valentina e Emanuele, i loro amici e i loro cani e ci inoltriamo in fondo alla strada che ci hanno indicato. 

E in effetti la scorgiamo di lì a poco, sul balcone di un palazzotto dall'aria cinquecentesca: dall'insegna posta fuori apprendiamo che si tratta della sede di "Nuova Messapia". 

Da diversi anni quest'associazione (molto attiva in diversi campi, da quello ambientale a quello culturale) rinnova a Soleto la tradizione, comune a tutta la Grecìa Salentina e al Salento, della Coremma. 


Il termine deriva probabilmente dal francese carème e indica il pupazzo che compare sui balconi dopo la mezzanotte del martedì grasso, quando finisce il Carnevale e inizia la Quaresima.
 
La Coremma, infatti, nella rappresentazione popolare sarebbe proprio la vedova del Carnevale e non a caso è vestita di lutto (chi vuole approfondire, può farlo su questo sito web): di fatto, un altro simbolo dalle origini oscure, anche se rivisitate e rallegrate dal corso dei secoli e dal folklore popolare.

Naturalmente, più che l'antica tradizione e la simbologia dell'avvicendarsi delle stagioni nel calendario, per noi la Coremma rappresentava soprattutto il soggetto della foto che si candidava ad essere l'emblema della giornata: e quindi ecco Graziano, Danilo, Monica e Cesà intenti ad immortalare il pupazzo nero sul balcone, peggio di una comitiva di cinesi davanti alla Grande Bellezza di Roma.

Tradizioni a parte, sono gli scorci sorprendenti ad incantarci nel centro storico piccolo, ma pieno di angoli segreti. 

Lì scorgiamo un'icona dipinta e ben restaurata, con un santo che somma in sé attributi orientali e occidentali: la barba, da un lato, la spada in mano, dall'altro. 
Dietro il dipinto si vede spuntare un albero carico di arance, segno evidente di un più vasto agrumeto delimitato e custodito dal candido muro di cinta, imbiancato a calce. 

Qui invece il tempo sembra essersi fermato agli anni '70: una Fiat 126 ancora in forma smagliante ha trovato parcheggio sotto un arco antico restaurato e ridipinto, la cui purezza viene però attraversata dai fili elettrici che lo imbrigliano e dalle mattonelle in pieno stile da boom industriale che ne ricoprono le fondamenta.

Ma è girando il successivo angolo che ci imbattiamo in uno dei più importanti monumenti della cittadina grìca, quello che più di ogni altro ne testimonia l'antico legame con l'oriente: la chiesa di Santo Stefano.

In questo piccolo tempio nel centro della città antica, risalente alla metà del 1300, a lungo i residenti hanno celebrato la messa cristiana con rito greco.

La facciata è semplice e raffinata insieme: un portale decorato e lavorato nella calda pietra locale sormontato da un piccolo rosone,  tipico del gotico pugliese, e da un campanile a vela dal quale filtra l'azzurro intenso del cielo di marzo. 

La vera attrazione della chiesa di Santo Stefano, però, non è la facciata esterna, bensì le navate interne: affrescate e decorate con cura estrema e popolate dalle coloratissime figure dei santi orientali mescolate ai personaggi delle scritture bibliche. 

Le scorgiamo da lontano attraverso uno spiraglio della porta, che è socchiusa. Peccato però che, quando ci avviciniamo, ci venga sbattuta in faccia e noi riusciamo solo a vedere un ghigno diabolico: è Gabriella, insieme ai componenti dell'altra squadra, "Macco". Sono riusciti ad introdursi per primi nella chiesa e ora ci sbarrano il passo, sicuri di portare a casa il risultato (come potrete leggere qui). 

Il gioco si fa duro. E allora è ora che i duri inizino a giocare. 
Ragioniamo: l'obiettivo della gara non è solo quello di rintracciare scorci suggestivi, ma soprattutto quello di conoscere personaggi caratteristici e capaci di raccontare la storia e le tradizioni di una comunità più di qualsiasi testo scritto o figura dipinta.

Non facciamo in tempo a ragionarcela che ci imbattiamo in un'arzilla vecchietta: vesti colorate a parte, la somiglianza con la Coremma è notevole. Ed è Monica che, col sangue agli occhi per la porta in faccia, la abborda (e guadagna 1 punto) per chiederle indicazioni sugli elementi più tipici che si possano trovare a Soleto. 

"E che ne so io, figlia mia?" risponde la vecchietta, nell'istintivo moto di adozione che caratterizza tutte le donne salentine che abbiano superato i 60 anni. "Prova lì - ci dice, indicando il palazzo di fronte - è una casa antica, ma non so dirvi se chi ci abita vi apre". 

L'indicazione della vecchietta si rivela provvidenziale: chi abita nel palazzo antico? Nonna Tetta, il più caratteristico personaggio che un ozioso visitatore del centro antico di Soleto possa desiderare.

Nella sua casa riusciamo ad essere ammessi dopo che Serena (1 punto per lei) ha fermato sulla soglia alcuni parenti di questa straordinaria e vitalissima 84enne e convinto sua figlia, Graziella, a farci varcare la soglia. 

La sua abitazione non è una casa qualunque: nonna Tetta e Graziella occupano un'ala del palazzo Blanco, detto anche Palazzo della Zecca, perchè un tempo vi si batteva moneta. 

All'angolo del Palazzo scorgiamo un'antica colonna sormontata da un capitello decorato: due puttini affiancati da due mascheroni apotropaici, le cui espressioni minacciose servivano, secondo le credenze dell'epoca, a scacciare gli spiriti cattivi. 

Sopra di essi, lo stemma di una fenice che brucia e risorge dalle sue ceneri, tra i più antichi simboli della magia e, soprattutto, della sua sorella oscura: l'alchimia. Alla fenice è riferito il motto latino che si legge, scolpito nella pietra: "ex rogo revivam", ovvero "rinasco dal fuoco".

Un altro simbolo misterioso: la nostra curiosità aumenta, e quindi tra le prime cose che chiediamo a nonna Tetta c'è proprio questa. "Nonna, che cosa sai delle macàre?" le chiede Danilo. 

"Macàre, ma quali macàre? Una ne conoscevo, che diceva di essere macàra  - racconta lei, in un italiano intriso di dialetto (o viceversa) - Ma sai che faceva? Buttava il sale grosso nel fuoco, lo faceva scoppiettare e poi diceva di aver fatto una fattura oppure di averla tolta: e così si faceva pagare da chi si era rivolto a lei, puttana e puttanazza!"


Dopo questa spiegazione, Nonna Tetta è definitivamente il nostro mito: Serena non resiste alla tentazione di scattarsi un selfie insieme a lei, che intanto racconta delle sue recenti disavventure in ospedale e della sua infanzia burrascosa. "Mia mamma morì e lasciò me di 14 anni con quattro fratellini piccoli - dice - settant'anni dopo, posso che dire che li ho cresciuti tutti io da sola e li ho cresciuti come si deve". 

Qualcuno le chiede se conosce il grìco, l'antico dialetto simile al greco antico che si parlava anche a Soleto. "Poco e niente, figlio mio - risponde Nonna Tetta - solo la frase che mi disse uno spasimante per convincermi a stare con lui: Me voi ca te voiu? Ka agàpi kànnome. Che significa: mi vuoi, che io ti voglio? Che l'amore facciamo" e conclude la traduzione aprendo in una contagiosa risata la bocca contornata da una considerevole peluria. 
 
Ride anche Monica, che però nel frattempo non dimentica la gara e la porta della chiesa di Santo Stefano sbattuta in faccia. E coglie al volo l'offerta che ci fa Graziella servendoci l'immancabile caffè: "è buono, è Quarta - assicura - volete anche qualche biscotto?". 
"Grazie - risponde Monica - E se ce li fa fotografare, facciamo punti alla faccia di chi sappiamo noi!". Graziella sghignazza, ormai definitivamente convinta della nostra demenza, ma altri 15 punti sono in cassa. Staremmo tutto il pomeriggio ad ascoltare le storie di Nonna Tetta (alcune delle quali abbiamo ritrovato qui), ma il nostro percorso deve continuare.

Lasciamo due donne non del tutto persuasi dell'inesistenza delle macàre. E Soleto conferma il suo volto oscuro pochi passi dopo, quando ci imbattiamo in una nuova chiesa: è la Chiesa delle Anime, anche detta del Purgatorio. 

Ci basta guardare il portale riccamente lavorato per capire il motivo del nome. Le figure scolpite in bassorilievo in pieno stile (e gusto) seicentesco non sono propriamente rassicuranti: l'architrave rappresenta nove anime che ardono nel fuoco eterno, mentre sugli stipiti campeggiano due teschi che fissano chi li guarda. 

Mai ci era successo di vedere nel pieno di un centro abitato simboli così caratteristici dei cimiteri; il portale emana un fascino macabro, insolito per la calda pietra leccese nella quale tutti i monumenti principali del centro storico (e di tutto il Salento) sono edificati. 


Si tratta di un materiale tenerissimo, tanto che viene chiamato "pietra di sabbia", anche per sottolinearne l'origine marina, derivata dalla fossilizzazione del plancton che viveva sospeso nell'acqua che sei milioni di anni fa ricopriva la provincia di Lecce (o almeno, questo è ciò che sostiene la Treccani). 

E come per una suggestiva coincidenza con le proprie origini, in alcuni monumenti la pietra leccese torna ad assomigliare a un elemento marino, come nella seicentesca chiesa di San Nicola che si affaccia su una delle piazze principali del centro antico: qui il lavorìo del tempo ha alveolizzato a tal punto le antiche colonne da farle assomigliare ad una colonia di coralli.


Giriamo l'angolo, proseguendo lungo una strada lastricata da antichi basoli, quando un paio di ciabatte rosa shocking attirano la nostra attenzione: insieme ad una maglia verde e a una gonna nera appartengono ad una signora affacciata all'uscio di casa. Serena la abborda all'istante (guadagnando 1 punto) e lei finisce, non si sa perché, a parlarci del nipote di 20 anni che, nel pranzo della domenica, non le ha dato grande soddisfazione. 
"Stamattina alle 5 si è ritirato, dalla discoteca - ci racconta - si alza e si mette a tavola: poi è normale, la nonna, che non ha appetito. Ma vi sembra cosa?". A 20 anni, tutto sommato, ci sembra cosa; ma non lo diremmo mai, per non deluderla ulteriormente. 

Salutiamo la policroma signora, con tanti auguri per il suo nipote tiratardi, e ci imbattiamo in un cartello che indica la "Casa natale di Matteo Tafuri, filosofo e alchimista del '500": Serena ci sbircia dentro, ma non si ricavano molte informazioni da questo palazzotto in rovina, non diverso da tanti altri di questo ricco centro storico. 
Da una rapida consultazione di wikipedia, scopriamo però che siamo di fronte a uno dei più originali ingegni del suo tempo, paragonato a Socrate e a Nostradamus, con studi a Parigi, Napoli, Salamanca e Padova. 
Ma "Matteo da Soleto" fu anche, a conferma dell'aria misteriosa che abbiamo respirato in questo paese fin dal nostro ingresso, un cultore della filosofia esoterica con fama di mago e negromante. Nonché il protagonista della leggenda che costituirà la degna conclusione del nostro percorso, che si dirige ormai alla nostra meta finale, la guglia di Raimondello Orsini Del Balzo.
La vediamo svettare davanti a noi quando usciamo fuori dal vicolo che stiamo percorrendo, denso di odori di panzerotti fritti e di luce che si fa sempre più calda, via via che il tramonto si avvicina. 

L'imponente massa della chiesa parrocchiale slancia ancora di più la torre che nasce da essa. Ci muoviamo per avvicinarci alla guglia, quando una voce ci ferma: "buonasera".  

È una vecchina dagli occhi azzurri e stretti, che ha appena risposto al saluto di Serena (che guadagna così 1 punto). "Sto raccogliendo un po' di foglie e fiori per il mio altarino di padre Pio" ci dice. "Padre Pio? Io sono molto devota" replica pronta Serena. La vecchina non se lo fa ripetere due volte: "e volete venire a vederlo? Tanto qui di fronte abito". Tanta disponibilità ci spiazza (oltre a farci guadagnare altri 5 punti): la guglia di Raimondello è lì da sei secoli, potrà aspettare qualche altro minuto. 


Seguiamo la vecchina nella sua abitazione: lei, bassina com'è, sguscia sotto la serranda semiabbassata, mentre noi dobbiamo curvarci per entrare. Entriamo in una piccola casa, che ha l'aspetto (e l'odore) di una tana: in un angolo il letto rifatto, nell'altro angolo una lunga sequenza di foto di fratelli, parenti e nipoti; al centro, addossato alla parete, l'altarino occupa il posto d'onore. "Hai visto che bello? tutto d'argento è", dice la vecchina porgendo l'icona a Serena e Monica. 

Graziano e Cesà guardano un po' perplessi le loro compagne di squadra: la devozione di Serena, di fronte all'atmosfera un po' allucinata di quella piccola tana sembra barcollare. E Danilo interroga la vecchina sulle sue origini e la sua storia. "Tutti mi conoscono, a Soleto: mia mamma, la Emma, aveva una bottega e io, Addolorata, l'ho tenuta dopo di lei. Ma il mio grande talento era un altro: io fin da bambina conoscevo tutti i 23 colori che distinguevano le varie qualità di tabacco. Figurati che a 14 anni, carusa carusa, l'onorevole Vallone, che veniva da Galatina ed era il padrone di tutto, mi diede le chiavi del magazzino". 


Quella vecchina un po' inquietante, insomma, era una tabacchina provetta. Di domande da fare ne avremmo mille, e lei sembra ansiosa di raccontare le storie che conosce e anche di avere un po' di compagnia. Ma è ormai tardi, siamo in giro da ore e c'è un ultimo monumento da vedere e un'ultima leggenda da raccontare. 

Salutiamo Addolorata e le assicuriamo che ci rivedremo, prima o poi. La guglia di Raimondello non si è mossa: è lì dal 1397, con i suoi 45 metri di altezza. 

A costruirla fu Raimondello, principe di Taranto e conte di Soleto, come a segnare uno spartiacque al centro del Salento tra due mari equidistanti, lo Ionio e l'Adriatico. Un simbolo che aveva anche un sapore politico, quello di riaffermare il dominio occidentale degli Orsini Del Balzo (e della sposa di Raimondello, Maria d'Enghien) su una comunità profondamente imbevuta di cultura orientale. 

Semplice e solida nella fondazione, la guglia svetta sempre più slanciata, via via che prosegue nella sua corsa verso il cielo e da quadrata diventa ottagonale per finire poi a punta; è lavorata e intagliata nella candida pietra leccese: all'altezza del secondo ordine, quattro gargoyle, simili a sfingi di pietra, sporgono da ciascuno degli angoli. 

Sono queste figure mostruose e la sua grazia quasi sovrannaturale ad aver dato origine alla leggenda che circonda la torre campanaria: ad edificarla in una notte sola sarebbero stati i demoni e i grifoni al servizio del mago e alchimista Matteo Tafuri. 
 
Ma, secondo la leggenda, l'alba spuntò quando la guglia era appena finita e quattro grifoni erano ancora posati su di essa: la luce del sole pietrificò le creature della notte che ancora oggi fanno bella mostra di sè sulla guglia.

La sera è ormai calata, il cielo trascolora dal celeste al blu e la luna splende, candida, poco più sopra della guglia di Raimondello Orsini Del Balzo e della leggenda della sua prodigiosa edificazione. 

Noi torniamo verso casa, lungo le stradine basolate che ci hanno condotto alla scoperta di questo luogo chiamato Soleto, magico per antiche leggende e suggestive realtà, i cui abitanti ci hanno aperto le loro porte e raccontato le loro storie.


Con la tappa di Soleto, la squadra "Micco" totalizza 45 punti, piazzandosi davanti alla squadra avversaria, "Macco", il cui tour potete leggere qui. E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!


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