domenica 30 marzo 2014

Macco, un moro, il ricordo delle mura e Muro.


Squadra: "Macco"

Narratore: Rocco.


E può anche capitare che dieci sgangherate ma meravigliose teste o, se preferite, venti intrepidi piedi si ritrovino intorno ad un Moro; chissà, forse non è neppure un Moro pur recandone le sembianze ma a Micco e Macco piace pensarlo così, ché loro sono per la bellezza della diversità. 
Un abbraccio, un saluto, un incitamento reciproco, una specie di rituale prima della battaglia, un gesto goliardico che riassume degnamente lo spirito di Chiccèccè.

Chiccèccè e la sua allegra compagnia tornano a raccontare di una terra e dei suoi luoghi, della sua storia e delle sue storie, delle persone che la animano e che ne sono l'anima vera.
Chiccèccè, di nuovo. Un Moro, o presunto tale, ed il ricordo delle antiche mura che -forse- egli stesso contribuì ad erigere in questo delizioso angolo di Salento che è Muro Leccese: un paese di poco più di cinquemila abitanti situato nella parte centro-meridionale della penisola salentina, proteso verso quell'Est che da queste parti è sempre di scena. E' una terra fantastica il Salento, un luogo dello spirito in cui si fondono storie e tradizioni composite provenienti dagli angoli più disparati e dove, soprattutto, c'è sempre spazio e tempo per (ri)conoscere la bellezza, quella vera, e concedersi a lei senza remore.
 

Micco e Macco, una nuova avventura e l'impazienza di perdersi nei rivoli di una storia che corre senza sfinirsi. La centralissima Piazza del Popolo: uno scrigno dalla forma oblunga che chiude in sé parte dei tesori di Muro: la Chiesa matrice dedicata alla Santissima Annunziata, la Chiesa dell'Immacolata ed il Palazzo del Principe. Che, poi, a ben vedere, uno s'accorge subito che Muro Leccese non è propriamente un borgo rurale ed afono, anzi… uno dei gioielli del barocco leccese ed uno dei Palazzi nobiliari più belli ed imponenti di tutta la provincia fanno di questo piccolo paese un sicuro centro d'interesse artistico e storico-culturale.
Macco conta già le prime defezioni: Gabriella, portentoso centravanti di sfondamento, tornata sui molli declivi marchigiani a pregustare successive e sempre più avvincenti tappe e Silvio, mago delle immagini, costretto a letto dalle esuberanze alimentari alle quali, ogni tanto, anche lui soccombe; pronti, però, i nuovi compagni di squadra: Andrea e Federica, Giuseppe e Francesca S. che, con chi scrive e con Francesca C., anche stavolta sapranno contendere agli amici di Micco lo scettro della gara.

La giornata, sin dagli esordi, non promette granché bene: un fastidioso vento di scirocco ed un cielo plumbeo ed ebbro di umidità sono i protagonisti silenti ma ingombranti di una domenica pomeriggio di fine marzo. La primavera sembra essersi ritirata proprio in quelle segrete stanze del Principe che, mute e cariche di storia e leggenda, sovrastano le due squadre dall'alto dell'aristocratica mole del Palazzo che domina la piazza.
Arrivare al proscenio da un dietro le quinte anonimo, nonché abbastanza malconcio, è sempre un'emozione, ed il percorso per arrivare al centro di quella meraviglia si conclude con l'immagine di un retro che ha già tanto da dire: la chiesa dell'Immacolata si offre con l'imponenza dei suoi contrafforti che attraggono verso l'alto lo sguardo invitandolo a portarsi presto sul fronte. La facciata di questo tempio sacro non può che confermare le aspettative.  La pietra leccese, luminosa e bianca, incanta, seppur in un giorno grigio; il Barocco è una cosa fantastica, una lingua che mozza il fiato a chi si fa rapire dalle sue volute e dalla sua lussureggiante spavalderia; è un esuberante gioco di chiari e scuri, di luci ed ombre, di pieni e vuoti, di sacro e profano… di Micco e Macco!

Il tempo necessario per ribadire le fondamentali norme del regolamento e per concederci qualche battuta e già, contattato da Micco e Macco, ci raggiunge Graziano Di Bari, presidente della locale Pro-Loco, il quale, per buona parte della permanenza, sarà il nostro Virgilio in un mini tour che ci renderà le più importanti notizie ed informazioni sul luogo.
Si va!
Il Palazzo del Principe, con la sua storia fatta di casati nobiliari, di blasoni e d'immaginifici araldi, è una costruzione che domina l'intera piazza su uno dei due lati lunghi; c'è e non esita a mostrarsi in tutta la sua magniloquente architettura.

Prima i De' Monti da Corigliano d'Otranto, poi gli Orsini del Balzo da Taranto, poi i Protonobilissimo: dimora austera di potenti famiglie, il Palazzo del Principe è davvero un forziere al cui interno si svolgono eventi ed accadono fatti dei quali se ne percepisce ancora l'eco attraverso le pareti.
 
Un vero e proprio museo (Museo del Borgo) che si apre a Micco e Macco narrando loro di antiche e gloriose vestigia messapiche, d'imponenti cinta murarie capolavoro di edilizia e di urbanistica, di un villaggio all'interno di un vero e proprio castrum dominato da un superbo castello del quale, come delle mura, se ne possono vedere le fondamenta attraverso qualche affioramento in superficie opportunamente concesso alla vista di chi entra in questa meraviglia. 

Nelle stanze al piano terra un'ininterrotta successione di visioni che risuonano di un presente e che pare non vogliano consegnarsi al passato; è forte il desiderio di continuare a scoprire il rincorrersi di oggetti di qualsiasi genere: resti di quotidianità, reperti di battaglie, monili e tutto ciò che narra di vite vissute.  In quel dedalo di stanze che s'inseguono e s'intersecano, a catturare l'attenzione due immagini, una simbolo di ricchezza e potenza economica e l'altra emblema di un vigore fisico e di un coraggio esaltati dalle asperità delle guerre: si tratta di una raccolta di monete in argento di diverso conio, il cosiddetto "Tesoretto", e di un elmo ottomano sopravvissuto a rivoli di sangue ed estenuanti battaglie.

Tutto ciò sotto l'egida di un temibile quanto maestoso e rassicurante dragone alato, simbolo araldico fortemente evocativo voluto dalla famiglia Protonobilissimo.

Guadagnare il cortile interno del Palazzo e salire l'imponente scala che porta al piano nobile è praticamente un attimo, lassù è Bellezza… ancor più. Sontuose stanze alternate a magnifici saloni perfettamente restaurati, balconi e terrazzi, viste mozzafiato, porte segrete ed anfratti, monumentali camini, audaci volte. 
Danilo in cerca della sua stanza del peccato, e Serena -vezzosa come non mai- che per qualche minuto si cala nelle vesti della principessa: il tutto senza soluzione di continuità con Micco e Macco eccentrici animatori di una sfavillante ed immaginaria festa in quel luogo senza tempo.

Dallo sfarzo austero del piano nobile al fascino misterioso dei sotterranei; sotto il palazzo insistono ancora gli enormi silos per il deposito dell'olio e le geometriche e bellissime buche attraverso le quali è ancora visibile l'affioramento di una falda acquifera ma, ciò che più cattura le attenzioni di Micco e Macco è l'angusta prigione: uno spazio quasi asfittico sulle cui pareti si conservano intatti i visionari graffiti dal pregnante simbolismo.

Micco e Macco riaffiorano in superficie pienamente soddisfatti ma consapevoli che Chiccèccè è pure una gara che non può essere disattesa. 
A parlarci dei luoghi - infatti- non possono essere soltanto le vestigia che li hanno immortalati lungo i secoli ma anche le persone che ancora ci vivono.

Non possiamo prescindere, però, dalla visita -ancorché breve- al superbo frantoio semi-ipogeo situato appena alle spalle del Palazzo del Principe e custode premuroso di oggetti ed attrezzi che un tempo erano il palpito inarrestabile di quel luogo della produzione: una gigantesca macina, torchi, pile e buche d'ogni fatta ma il pezzo forte è costituito da uno splendido graffito realizzato sui regolari conci che sostengono la volta del frantoio e che raffigura, anche in questo caso con una potente carica immaginifica, la gloriosa battaglia di Lepanto che pose fine alle invasioni dei Turchi. 
 
Anche per questo capolavoro chi ha "raccontato" lo ha fatto in base a ciò che ha visto personalmente, si presume infatti che l'autore abbia direttamente partecipato alla battaglia e che ne abbia voluto tracciare i momenti salienti proprio su queste pietre; singolare, giusto per citare un dettaglio, la macroscopica diversità tra le imbarcazioni raffigurate: sontuose e potenti quelle degli Ottomani, piccole e "sgarrupate" quelle dei Cristiani.

Risaliamo le scale del frantoio. E' gara, finalmente!
"Signora, quant'è bella questa chiesetta! Saprebbe raccontarci qualcosa che la riguarda?". Andrea e Francesca, all'unisono, si rivolgono con occhi imploranti ad una simpatica vecchietta ferma sull'uscio di casa richiamata all'esterno dallo schiamazzo dell'allegra brigata di Chiccèccè . 
"Nah, quiddhra è la chiesa de San Giuseppe. Sta porta l'hannu chiusa e la petra è tutta cunsumata de li becchi de li ceddhri ca depositane l'ove". Vale a dire: "Oh, quella è la chiesa di S. Giuseppe. Questa porta è stata chiusa e la pietra è consumata per opera dei becchi degli uccelli che vi depositano le uova". (1 punto)
In realtà, più che l'accanimento di qualche uccellino, ad erodere in maniera così penetrante la friabile pietra leccese è l'azione degli agenti atmosferici ma… perché deludere Rosina?

Rosina, col suo avvolgente scialle viola ed un inarrestabile eloquio, accoglie Macco con un'affabilità che viene da lontano ed impaziente di raccontarsi e ci fa accomodare subito in casa (5 punti); pochi attimi ed è subito empatia. "Ca ieu tengu na fija ca è dottoressa e ca lu maritu sou è assessore ma cu nui è rimasta l'addhra fija ca nu s'ha spusata e ca menu male ca nc'ete" ("Ho una figlia che è medico ed il cui marito è assessore ma in casa con noi è rimasta l'altra figlia che non si è sposata e meno male che c'è lei").

Fiera di una vita di lavoro e di sacrifici, Rosina ci mostra la sua casa invitandoci ad accomodarci nel salotto occupato in ogni angolo da pregiati mobili e suppellettili ad intarsi lignei realizzati dal marito, lo scoppiettante mesciu Luigi che poi conosceremo. Rosina, un fiume in piena e noi che cerchiamo di spiegarle la nostra idea, il nostro gioco; "Ce siti beddhri, carusi! Ca a mie me piacene ste cose" ("Quanto siete belli, ragazzi! A me piacciono queste cose"). 

Nel mentre, tra una chiacchiera, un racconto di vita vissuta e tante risate, chi narra è attratto da una deliziosa natività in cartapesta orgogliosamente esposta come se fosse ogni giorno Natale!

Ed ecco che, come per incanto, arriva la figlia di Rosina con il caffè (5 punti) e con delle invitanti brioches che valgono altri 5 punti e che, soprattutto, per Macco sono una ricostituente ed inattesa merenda;

Alla compagnia si unisce mesciu Luigi, intarsiatore e memoria storica degli artigiani di Muro, che esibisce fiero i suoi manufatti accompagnandosi a recitazioni a memoria di "cunti" e poesie che intatti si conservano nella sua portentosa memoria, documentata dal video (che ci vale 15 punti).

Salutiamo la famiglia Carluccio riguadagnando il borgo antico alla ricerca di altre persone e fissando ciò che capita sotto i nostri occhi: corti nascoste, stelle di David a sormontare finestre e testimoni silenziose dell'esistenza di vecchie comunità ebraiche, Santi, Madonne e figure d'ogni tipo incastonati nei muri, case cadenti e fiorenti cespugli su vecchi cornicioni. 

Mentre assorti commentiamo questi dettagli, ci attrae  il saluto affettuoso e sorridente della signora Maria Elisa Trinchese (1 punto) che, sulla porta della sua casa che divide, su due piani, col figlio, ci accoglie pur non facendoci entrare. 
 
Maria Elisa si ferma a chiacchierare con noi raccontandoci di questo borgo ormai quasi completamente disabitato ed indicandoci con struggente tristezza tutte le case vuote che circondano la sua, è contenta di scambiare qualche parola e noi siamo felici di averla fatta sorridere.

Poco più avanti, il corpulento ed ombroso Antonio (1 punto) ci nega la visita al suo giardino ed alla sua casa che intravediamo oltre la sua figura ma non esita, anche lui, ad intrattenersi per qualche minuto con noi.

Sarà un po' colpa del tempo incerto e piovoso, o forse della concomitanza della Messa vespertina (che qui da noi è ancora pratica assai diffusa, soprattutto di domenica), ma davvero non è facile trovare qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere. 

Macco non si dà per vinto e continua a girare per le viuzze del centro antico, speranzoso ed ottimista; ed ecco Valentina, giovanissima madre, con la sua figlioletta Benedetta,  sbucare da un portoncino in ferro che introduce su una deliziosa corte privata, ornata di piante d'ogni genere. Neppure Valentina può fermarsi con noi, ma non ci nega qualche parola sulla sua indaffarata vita di mamma e sulla tristezza di un centro storico sempre più vuoto e desolato, ed è subito selfie! (1 punto)

Il tempo scorre, forse nel caso di Chiccèccè sarebbe meglio dire che corre, e basta una sbirciatina all'orologio per rendersi conto che restano poco più di venti minuti all'appuntamento finale con Micco, l'eventuale ritardo attribuisce delle penalità con sottrazione di punti. Occorre sbrigarsi!
Una strana porta che chiude una veranda un tempo interamente scoperta attira la nostra attenzione, uno scampanellìo veloce e per niente timoroso e l'uscio si apre: appare la simpatica e sorridente Carmela (1 punto) che -dapprima esitante ma poi, dopo aver ascoltato una brevissima presentazione di Chiccèccè, rilassata e soddisfatta- c'invita subito ad entrare in casa (altri 5 punti). Ci appare un microcosmo pittoresco ed affascinante.

Ecco Giuseppe, marito di Carmela, che ci rassicura manifestando la soddisfazione d'aver scelto casa sua per una nostra incursione. Quello spazio che un tempo era la veranda scoperta (e che ora è un ambiente fantastico un po' cucina ed un po' ripostiglio, un po' ingresso, un po' bagno ed un po' suk marocchino…) introduce all'abitazione vera e propria attraverso uno spazio comune che immaginiamo essere il tinello/sala da pranzo e da the. 

Un gigantesco televisore al plasma (ché noi levantini, in fondo, siamo gaudenti!) sintonizzato su Tele Padre Pio c'incute subito un sentimento tra l'angoscia e la religiosa riverenza. Padre Pio è ovunque, sotto la specie di qualsiasi icona, a dirci che lì regna incontrastata una fede (fede?) senza se e senza ma.  

Poi una mensolina con tanto di centrino piena all'inverosimile di foto dei defunti cari alla famiglia, e ancora, rosari e crocefissi appesi dappertutto, ninnoli, chincaglierie e soprammobili d'ogni fatta e Giuseppe che continua a parlare; ma, a rompere l'incanto, ecco la fiera Carmela presentarsi con un vassoio ed il limoncello preparato da lei (5 punti). 
 
Carmela non cela l'orgoglio per la sua liquorosa produzione casalinga  e Macco, ovviamente, beve e ringrazia di tanta generosa ospitalità.

Il tempo per i saluti di rito, Giuseppe che si accomoda per un attimo ad un'improbabile consolle per ascoltare un po' di musica, grande passione del figlio di Giuseppe e Carmela, e Macco riguadagna la strada.

Piazza del Popolo, Micco ad attenderci ed una gran voglia di raccontare. Di raccontarci.

Di rito la foto di gruppo delle due squadre e, vista l'ora, un aperitivo a sigillo di un pomeriggio decisamente diverso; ve lo avevamo detto che non vi avremmo deluso, vero? 

Reduce dal secondo posto nella tappa di Soleto, la squadra "Macco" guadagna 45 punti nella tappa di Muro, piazzandosi alle spalle della squadra avversaria "Micco" (la cui gara potete leggere qui). E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!

Il principe e il popolo: Micco a Muro Leccese


 Squadra: "Micco"

Cercatori: Monica, Cesà, Serena e Graziano.

Narratore: Danilo


A Muro tenevate il porco in casa: noi a Maglie eravamo più civili!” sfotte Filomena. “Ma se Maglie ha duecento anni. Muro ne ha duemila, di anni! Chi è più civile?” sbotta Paolo. Le dita a V, secoli contro millenni, lui mette a tacere lei: l’intemerata è bonaria ma, per qualche secondo, negli occhi miti di questo ottantenne dai capelli bianchi è lampeggiata la fiamma che probabilmente ardeva nello sguardo del suo omonimo antenato, “sindaco” nel 1.200, quando la vicina Maglie era un casale agricolo e Muro Leccese era già contornata di mura megalitiche risalenti a quindici secoli prima. 
In quegli anni, probabilmente, nacque la ‘nciurita, ovvero il soprannome, dei muresi: “porci”, epiteto poco gentile la cui origine fa riscaldare la coppia (se volete assistere al botta e risposta integrale tra il murese Paolo e la magliese Filomena, punteggiato dalle risate di Graziano, potete farlo qui sotto). 


I Castrì sono la famiglia più antica che vive ancora a Muro Leccese – ci spiega lui tutto orgoglioso, seduto nella sua cucina – e abitiamo in questa corte da almeno nove secoli”. Il nostro viaggio in questo piccolo centro dell’entroterra d’Otranto è breve, ma denso e fortunato: la Storia concentrata nel palazzo Protonobilissimo, che abbiamo visitato due ore prima, e le storie che via via stiamo inanellando nel nostro percorso. 

Compresa quella del signor Paolo e di sua moglie, Filomena: neanche a farlo apposta una coppia, nel paese in cui tutto sembra doppio. 

Due i borghi antichi, uno medioevale alle spalle del Castello e uno seicentesco nella strada che gli sta di fronte. 

Due gli antichi frantoi, uno per il principe e uno per il popolo. 

Due anche le chiese che – caso più unico che raro – si fronteggiano al centro del paese: su un lato una chiesa del principe, edificata dai feudatari Protonobilissimo, e su un altro lato una chiesa del popolo, costruita dal potente ordine dei Francescani. 

Una e anzi unica, invece, è la spettacolare piazza che rappresenta il cuore della città e che unifica i due volti di Muro: la piazza del Popolo, sulla quale si affaccia il palazzo del Principe. 
È proprio il palazzo del Principe la nostra prima tappa; siamo “doppi” anche noi: Micco e Macco, le due squadre che questa domenica si sfidano a Muro. L’obiettivo è sempre lo stesso: trovare gli scorci più suggestivi e i personaggi più caratteristici del centro che abbiamo scelto. 

Ma prima di dedicarci alla gara, decidiamo di seguire la Pro Loco nel tour che propone ai visitatori: più tardi le due squadre si separeranno a caccia di punti, ma ora effettuano insieme il volenteroso presidente Graziano Di Bari, che ci guiderà nel museo ospitato all'interno del Palazzo del Principe, nel frantoio semi-ipogeo dei Protonobilissimo e anche nel nucleo medioevale posto alle spalle del castello: quest'ultimo si chiama Borgo Terra, come molti analoghi centri antichi del Salento. 

C’è un’espressione molto usata e un po' banale, per descrivere certi luoghi: “il tempo si è fermato”. Qui, in realtà, il tempo è fermo e insieme mobile: un sapiente lavoro di restauro (e di illustrazione delle emergenze più interessanti) ha restituito le antiche case al loro umile splendore. 

Il nucleo antico è ricco di angoli di grande suggestione, ma la cosa che ci colpisce è il silenzio che regna incontrastato: questo borgo è, come ci accorgiamo ben presto, sostanzialmente spopolato.

Buona parte delle case, infatti, sono vuote e lasciate a se stesse, mentre quelle abitate sono state oggetto di discutibili interventi, al limite dello sconcio: è il caso dell’antica taverna di Borgo Terra, dove una doppia inferriata in acciaio grigio è stata piantata nella pietra farinosa, per tenere curiosi e visitatori a debita distanza dall’antico portale, sul quale si legge l’iscrizione latina “Ingens animus sub lare parvo”, ovvero “Sotto un piccolo focolare vi è un animo grande”: una massima che in effetti avremo modo di verificare, durante la nostra gara. 

A proposito di gara, a rompere il ghiaccio è Serena, vagando per le antiche strade basolate. Guidati dal volenteroso presidente della Pro Loco che ci conduce nella visita al castello e al Borgo Terra, varchiamo una suggestiva porta che ci apre un cortiletto. 

Lì in alto ci sono dei simboli, che potrebbero essere collegati alla possibile presenza di ebrei a Muro”, ci spiega la nostra guida. 

Attirato dal baccano, il vecchietto che abita nel presunto ghetto ebraico esce fuori di casa. E Serena lo aggancia subito, (guadagnando 1 punto), chiedendogli spiegazioni sui simboli. “E che ne so io, figlia mia? – risponde lui, con la quiete di chi ne ha viste passare molte – lì li ho trovati e lì li ho lasciati”.

Sarà l’unico incontro che faremo nel borgo medioevale: ben più vivo e popolato ci risulterà, invece, il borgo seicentesco antistante al Castello, dove tra l’altro incontreremo il nostro “protosindaco” di Muro, Paolo Castrì, inoltrandoci sulla via che lambisce la torre dell’orologio. 
Apprenderemo dopo che si tratta di una strada antica e ricca di storia; ma ci accorgiamo subito della bellezza di uno dei palazzi che si affacciano su di essa.  

Ci inoltriamo nell’androne, in direzione del salice piangente e della palma che si staglia nera contro il cielo che trascolora verso il tramonto.

L’atmosfera è decadente, ma i dettagli sono curatissimi: dai leoni che campeggiano sul grande portone che ci siamo lasciati alle spalle, alle porte incise che rappresentano paesaggi orientali, perfino nell’alternanza tra fiori rossi e blu del giardino.
 
Suoniamo alla porta che vediamo illuminata, ma stavolta nessuno ci risponde: Monica, più tardi, interpellerà due vicini di casa (guadagnando 2 punti), che ci spiegheranno che l’edificio è abitato solo in parte. 

Usciamo dall’androne e Serena (che conquista così 1 punto) abborda un maturo signore con i capelli bianchi e la camicia a scacchi: “Che palazzo è questo, ci scusi?”. 
Palazzo Maggiulli Alfieri, da non confondere con il palazzo Maggiulli, un po’ più giù” risponde lui pronto, nel quale avrete riconosciuto il nostro Paolo Castrì: il discendente del protosindaco di Muro invita Serena, Graziano e Danilo ad entrare nella sua bottega di artigiano del legno (facendo così ottenere 5 punti alla squadra), dove si trova anche un ragazzo, Pierluigi: è uno degli ultimi rampolli della sterminata e antica famiglia Castrì. 

Parliamo anche con lui, (tra l'altro guadagnandoci 1 punto): “con Uccio siamo terzi cugini, ma abitiamo nella stessa corte” ci spiega; un accenno che, ovviamente, ci rende smaniosi di vedere la corte sulla quale si affacciano le case dei Castrì. 
Così Serena indossa la sua migliore espressione di brava figliola e esala un esitante: “potrei fare una domanda davvero sfacciata? Potrei chiedervi di vedere la corte e, magari, di offrirci un caffè?”. Pierluigi, dubbioso, guarda Paolo ma la faccia del vecchio si apre in un sorriso: “e ci mancherebbe altro, signorina!”. 

Tra poco vedremo i Castrì mostrarci la loro corte e Paolo aprirci la sua casa. Nel frattempo a chi ci legge basti sapere che quanto abbiamo visto nel museo ospitato dal palazzo del Principe dà ragione al discendente dell’antico sindaco: Muro ha una storia millenaria, testimoniata non solo dai resti delle mura messapiche, alle quali probabilmente il paese deve il suo nome, ma anche ai ritrovamenti archeologici, come lo scheletro intero e perfettamente conservato emerso in località Cunella. 

Era un uomo alto 1 metro e 70 – ci spiega il presidente della Pro Loco – è vissuto nel III secolo avanti Cristo e morto intorno ai 50 anni”. 

La spiegazione, pur interessante, si dilunga e si dettaglia; non aiuta a ravvivarla la visione dei frammenti di vasi a figure nere e di crateri ellenici (che la nostra guida chiama con una gaffe inopinata “cateteri”, suscitando gli sghignazzi di Danilo e Monica, in pieno clima goliardico da gita scolastica).

Al posto d’onore della sala archeologica, accanto allo scheletro dell’uomo di Muro, campeggia il frammento di un capitello, le cui decorazioni sono identiche a quelle che caratterizzarono gli edifici di re Filippo il Grande, padre di Alessandro Magno. 

La nostra guida si perde nella descrizione dei probabili commerci tra le due sponde dell’Adriatico e del legame che univa Muro alla Macedonia. 

Le facce di Federica, Serena e Andrea davanti al capitello di scuola macedone dicono chiaramente che la visita al palazzo del Principe è un momento irrinunciabile nella nostra visita a Muro, ma anche che è bene contingentare i tempi per non perdere le mille storie che questo paese ha da offrire.
C’è la storia grande e plurale, come quella che ci è stata appena illustrata. E poi ci sono le storie piccole e singolari, che però raccontano bene cos’era questa terra non nell’anno mille ma appena mezzo secolo fa. 
Come quella della vispa ottantenne che ci racconta di “quando a 12 anni andai a lavorare come colona nella campagna del duca Basurto”. 

La agganciamo proprio nella piazza del Popolo: è Cesà, stavolta, a riuscire nell’approccio (guadagnando 1 punto) e insieme a Monica si mette a scavare nella memoria della donna, palesemente divertita davanti alle nostre domande. “A scuola ci siamo andati poco, ma la quinta elementare ce l’ho” premette lei, come per scusarsi del suo dialetto verace, che ai nostri occhi è invece preziosissimo: è un pezzo di civiltà contadina, quello che questa donna ci racconta nella piazza di Muro e che, per inciso, vale alla nostra squadra 15 punti
È il corrispettivo di un cuntu, un racconto in dialetto proveniente da un mondo antico e che non c’è più: lu fenu e lu posciu, memoria della sua infanzia passata a lavorare nei campi, dai 12 ai 23 anni, “fino a quando non mi sono sposata”, ci spiega. Per sentirlo per intero basta cliccare qui.

E poi quando ti sei sposata, ti ha mantenuto tuo marito?” chiede Monica, che non a caso è l’imprenditrice del gruppo. “Oh, è logico! – sbotta la donna – ho fatto nove figli, tutti maschi!” rimarca lei, come a dire che il suo dovere l’aveva fatto, eccome. 
 
Nel frattempo Serena è tornata dalla chiesa matrice, dove ha fotografato i transetti interni e i colonnati esterni, entrambi lavorati e scolpiti secondo i dettami di quel barocco che c’è chi definisce “minore”. 

Opere, tutte, di artigiani locali: erano talmente bravi e rinomati, gli scalpellini di Muro, che a centinaia furono chiamati in Veneto a lavorare all’edificazione di una delle sedi della prestigiosa università di Padova. 
Questo, per lo meno, è quanto ci ha raccontato la nostra guida durante la visita guidata al palazzo Protonobilissimo, che avevamo lasciato in sospeso nella sala archeologica. 

Da lì, ormai stremati, avevamo chiesto di salire direttamente al piano superiore, ad ammirare le stanze nobili. 
Il presidente della Pro Loco brontola un po’ per l’impazienza che spezza il filo del suo racconto, ma alla fine cede alle insistenze e Danilo, Serena, Graziano e Monica, insieme a tutti gli altri componenti della squadra concorrente, salgono trionfanti le scale che li portano al piano nobile del palazzo Protonobilissimo. 

Il nome viene dalla famiglia che lo costruì alla metà del 1.400, a partire dal capostipite, Florimonte: significa “primo fra i nobili” e ha come stemma il drago alato che campeggia sul portale d’ingresso e su diversi pezzi di vasellame.

Tanta attesa non verrà delusa: il castello si conferma principesco e, probabilmente, il più curato e meglio tenuto del Salento. 
 
Fughe di saloni con decori leggeri ed eleganti. Pavimenti a scacchi di marmo lucido. Lampadari in vetro e ferro battuto. 

Soprattutto, tende ricamate ad ogni finestra, che Serena si ferma a contemplare, forse vagheggiando un futuro da gran dama. 

Da una parte vediamo la romantica camera della principessa, dall’altra parte la funzionale camera del Principe, affacciata sulla piazza del Popolo. 

Vista dal balcone la chiesa dell’Immacolata si staglia scura davanti al sole che comincia a calare. 

Più tardi, osserveremo da vicino il suo gioiello più prezioso, la nicchia rococò riccamente lavorata al centro della facciata, nella quale trova posto la statua della Madonna a cui è dedicata.

Sarà poco dignitoso, stretti tra tanta sacralità e cotanta nobiltà, ma non resistiamo. Così Cesà scatta una foto collettiva: un selfie sul balcone del Principe è d’obbligo, amalgamati senza distinzioni di squadre, di Micco o di Macco. 
Rassicuratevi: uno spirito così olimpico durerà poco. Il nostro racconto può ritornare alla corte dei Castrì: la corte è una struttura abitativa tipica della terra d’Otranto che consiste in un cortile aperto, comunicante con la strada, sul quale si affacciano diverse case. 

Molte incisive ristrutturazioni hanno cambiato l’aspetto di questa corte, ma l’intero lato centrale è ancora com’era nel 1631, anno che si legge in numeri romani sul portale. 

Il resto dell’iscrizione è resa incomprensibile dal passare del tempo e della calce bianca. “Mi hanno detto che significa «bere poco fa male, bere vino fa bene», ma forse mi stavano prendendo in giro” ci dice ridendo Paolo, aprendoci la porta di casa (e facendoci guadagnare altri 5 punti): “Accomodatevi!”. Ci tocca 1 altro punto quando salutiamo Filomena, che regna sulla cucina e sulla casa: “Uuh, le foto state facendoo? – esclama, allungando le u e le o nell’ululato dolce che caratterizza la parlata salentina – Proprio oggi che non ho i capelli fatti e la casa è in disordine?”. 

Ci guardiamo intorno, interdetti: non solo la chioma della signora non lascia nulla a desiderare, ma soprattutto la sua casa brilla come uno specchio. “Venite, venite nel salotto buono” ci dice Paolo e, quando la luce si accende, rimaniamo basiti: la casetta che ci ha accolto esibisce un parquet posato a incastro in cui le diverse tonalità del legno compongono delle rose dei venti, mentre il soffitto, da cui pende un lampadario di ferro battuto, è a cassettoni stuccati e decorati. 

L’ho fatto tutto io, la sera, quando tornavo dal lavoro – gongola Paolo – avevo una piccola ditta di ristrutturazioni edili, ma la mia passione è sempre stata questa”. Serena si mette letteralmente in ginocchio: “per fotografare meglio” spiega.

Un tesoro nascosto, frutto dell’arte e della cura del suo proprietario; rientrando in cucina, ci viene spontaneo raccontare a Paolo e a sua moglie quello che abbiamo visto un paio d’ore prima nel castello del Principe: “c’era un tesoro nel vero senso della parola – spiega Danilo – decine e decine di monete d’argento, che una signora aveva ritrovato in casa sua”. “Quindi aveva fatto un’acchiatura”, dice Filomena, facendo riferimento all’antica leggenda del ritrovamento di un tesoro; leggende diffuse in tutta la provincia che, evidentemente, hanno radici profonde nella storia. 

Allo stesso modo, nel dialetto salentino più stretto i denari vengono chiamati turnisi: e infatti “denari tornesi”, risalenti al 1.300, sono queste monete conservate gelosamente nel palazzo.
Ma quindi volevate il caffè, no?” ci chiedono Paolo e Filomena; la cortesia di questa coppia è davvero principesca, la risposta affermativa è d’obbligo, l’autoscatto è di rito: non solo il caffè è buonissimo, ma altri 5 punti sono in cassa

E magari possono aumentare, se Filomena ci enunciasse una ricetta tradizionale: ben 10 altri punti nel paniere. “Ma io non sono una grande cuoca” si schermisce lei. Basta però ricordarle che pochi giorni prima c’è stata la festa di San Giuseppe per trovare il piatto tradizionale della ricorrenza: la “massa e ciciri”, la cui ricetta (anche con un accenno alla variante con i mugnuli) potete trovare cliccando qui.

Ma tra frizzuli e lazzi, parquet e caffè, il tempo in casa Castrì è volato: e noi dobbiamo andare avanti, nella gara e nel nostro tour. 

Con Paolo e Filomena sono saluti, baci e ringraziamenti: usciamo da quel “lare parvo” dove abbiamo trovato più di un “ingens animus” e ci avviamo al termine della nostra visita, guidati da Pierluigi. 
Mentre Monica, ormai posseduta dallo spirito del gioco, ferma una gentile signora alla quale chiedono la ricetta della crostata con la marmellata di arance (ottenendo, però, molti sorrisi ma 1 solo punto per la chiacchierata), Graziano, Danilo e Serena proseguono sulla strada con Pierluigi.
Scopriamo che è un architetto, laureato a Pescara, e che collaborato spesso con la Sovrintendenza ai Beni Culturali: è lui a spiegarci l’importanza della “Via Salentina” sulla quale si affaccia la corte dei Castrì e molti dei più importanti palazzi di Muro. 

È antichissima, perché seguiva un corso d’acqua sotterranea – ci spiega – infatti molte delle case che vi si affacciano sono munite di pozzo per attingere alla falda, che qui è vicinissima al livello del suolo”. 

La cosa non ci stupisce: pochi metri più a monte, abbiamo visto la falda affiorare e invadere i sotterranei del Palazzo del Principe, proprio accanto alle carceri. 

Le carceri, proprio così: il nome è plurale, ma in realtà si tratta un solo locale piccolo e angusto, tanto stretto che occorre accedervi piegandosi a metà. 

Siamo in dodici, uno addossato all’altro, e ci entriamo a stento. 

Qui il principe imprigionava chi pensava lo meritase: ribelli o criminali che fossero. 

E i prigionieri lo hanno ripagato con graffiti e incisioni fantastiche, che raffigurano uomini che portano una croce, cavalli dal muso lunghissimo, simboli religiosi e serpenti zebrati. 

Nulla di artisticamente rilevante, beninteso, ma è fortissima la potenza suggestiva di queste immagini: e ci immaginiamo quei poveretti, imprigionati in una minuscola cella cinque secoli fa, che passavano il tempo a intagliare la morbida roccia del Principe.
 
Ma il tempo per le immaginazioni è ormai agli sgoccioli: proseguiamo il nostro itinerario per la Via Salentina, tra palazzi dai balconi barocchi e grappoli di pomodori appesi alle pareti, per giungere al parco di Muro. 

Qui incontriamo il più docile gatto di tutto il paese, che non solo non fa una piega quando Serena lo accarezza ma anzi si lascia spupazzare senza battere ciglio, con aria consapevole della propria morbidezza. 
 
Il parco, bellissimo e popolato di ragazzi, nella luce quasi scomparsa del sole ormai tramontato, custodisce un altro degli umili tesori di questo multiforme paese: un frantoio ipogeo, purtroppo chiuso e in stato di abbandono, che apprendiamo essere stato quello più usato dalle famiglie di contadini che coltivavano le fertili terre circostanti. 

Grande è la differenza con l’altro frantoio che abbiamo visto alla fine della nostra visita guidata ai possedimenti dei Protonobilissimo: il frantoio semi-ipogeo del Principe, vera cattedrale della filiera olearia di questo spicchio di territorio. 

Tenuto con grande cura e illustrato con grande amore dalla nostra guida, Graziano Di Bari, è un vero e proprio documentario di pietra sulla principale forma di economia che a lungo ha caratterizzato il Salento, quella agricola, che in qualche modo sembra ritornare oggi alla ribalta produttiva.
Sarà proprio all’interno del frantoio del Principe che conosceremo il più caratteristico personaggio del nostro tour, che è anche l’ultima persona che regaliamo al nostro racconto: mesciu Scisci, ovvero Luigi Carluccio, noto falegname specializzato nelle trozzule

Trozzule ne volete, signori miei?” sarà la frase che l'artigiano ultranovantenne lancerà sulle scale del frantoio del Principe; Danilo non se lo fa ripetere due volte: “Come no! Ce le fai vedere?” gli dice (guadagnando 1 punto). 

La bottega di mesciu Scisci è proprio lì, a pochi passi dal frantoio; bottega d’altri tempi, dotata di scalini ripidissimi, dai quali l’ultra90enne si cala nella cantina ricolma di trucioli e di pezzi di mobilio intagliato sui quali sta lavorando con insospettabile agilità, ben superiore a quella di Cesà e Danilo che comunque lo seguono nella bottega (guadagnando 5 punti). 

Questo artigiano dagli occhi antichi sembra aver fatto qualche patto soprannaturale di lunga vita, forse contraccambiandolo con una congrua partita di trozzule: si tratta di aste, dotate di una ruota dentata intorno alla quale si fa girare una sorta di bandiera di legno, il cui rumore caratteristico risuona durante i riti della settimana di Pasqua. 

 
Con queste si andava nelle chiese, specie il sabato santo” ci spiega lo stesso mesciu Scisci illustrando il senso della tradizione religiosa e il funzionamento della trozzula (potete ascoltarlo nel video qui sopra).

Per Graziano, a dir la verità, l’oggetto di legno diventa subito il giocattolo per fare un po’ di casino nella bottega e il souvenir del nostro tour di Muro, il cui racconto è ormai giunto al termine. A degna conclusione, Serena scatta un selfie che ritrae lei sulla porta e noi altri calati nella tana del falegname nonagenario, sorridenti per quello che Muro ci ha regalato: la millenaria Storia delle sue mura e le singolari storie di coloro che le abitano.

Reduce dal primo posto nella precedente tappa di Soleto, la squadra "Micco" totalizza 54 punti nella tappa di Muro Leccese, piazzandosi davanti alla squadra avversaria, "Macco" (il cui tour potete leggere qui). E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!