Dalla Calabria con furore,
mi mancano le montagne ma del Salento amo tutto, soprattutto le sagne, i
pasticciotti e il Negroamaro.
Ostinatamente contraria al navigatore in
auto, la sfida quotidiana con me stessa è trovare la strada. Soprattutto
quella per far parlare le persone...
Giornalista in questa vita, nella
prossima sarò l'autista di una banda di rapinatori oppure mi reincarnerò
in un gatto per camminare sulle ringhiere senza paura di cadere.
Un "reality tour" fatto in casa: nei centri salentini meno conosciuti, i cercatori esplorano gli scorci più suggestivi e i personaggi più caratteristici. Ma i punti si vincono entrando in confidenza con gli abitanti. Ad esempio, una chiacchiera: 1 punto; un caffè: 5 punti; una ricetta: 10 punti; pranzo o cena: 35 punti; e così via. Per seguire #chiccèccè: facebook.com/chiccecce o chiccecce.blog@gmail.com
martedì 29 aprile 2014
I concorrenti: Giovanna Occhilupo

Giovanna Occhilupo.
33 anni, da Manduria a Lecce.
È una ricercatrice precaria in Beni Culturali (che oggi è di tendenza e fa molto chic). Vive di forti passioni e fantasia (infatti attende ogni settembre che le arrivi la lettera di ammissione alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts).
I pilastri che reggono la sua esistenza sono i suoi tre migliori amici e sua sorella. Poco tollerante e molto maldestra, vive seguendo il motto "carpe diem".
sabato 19 aprile 2014
Macco a Patù: Centopietre e una cotognata in Finibus Terrae
Squadra: "Macco"
Cercatori: Francesca C., Andrea, Federica, Francesca S. e Silvio.
Narratore: Rocco.
Come fosse un piccolo totem,
Valentina esibisce un vasetto di
marmellata di mele cotogne, prestandosi simpaticamente ad una posa da
selfie circondata dagli increduli Macco. Uno scatto immortala il colore intenso
di un dono e diventa sigillo di una sfida che, probabilmente, segnerà la prima
insperata vittoria di Macco nel tour salentino di Chiccèccè.
Teatro di questo strabiliante risultato è la
casa della professoressa Valentina Grecuccio, a Patù. Lì la penisola salentina
si restringe fino a consegnarsi a Santa Maria di Leuca e, da qui, allo Jonio:
un agglomerato urbano grande poco più di un fazzoletto ed interamente dominato
dalla Serra di Vereto, antico e glorioso presidio messapico del quale restano
la memoria e l’imponenza immaginifica dell’originaria struttura.
Un sabato pomeriggio d’inizio
aprile, uno di quei giorni in cui, senza la certezza del calendario, non si
saprebbe definire la stagione. Il cielo minaccia una pioggia che non verrà ma,
che incombe penzolante proprio come spada di Damocle. Forte soffia un vento che
viene dal mare, quello scirocco ebbro di umidità che sconvolge e sfianca ma che
è il suono più autentico della nostra terra. Nel complesso l’aria si tinge di un
grigio insensato.
A sugellare un’armonia che sa
farsi complicità, l’appuntamento nella piazza del paese consente a Macco e
Micco di gustare un caffè in un bar nei paraggi, particolarmente affollato in
attesa della fine di una messa esequiale; bene, è tempo di andare, è tempo di
gara, è tempo di racimolar punti.
Da una stradina che sembra quasi
arrivare da un luogo senza tempo sbuca Salvatore, fermarlo è un obbligo anche
perché si rende necessario capire dove e come poter incontrare qualcuno che
sappia raccontarci qualcosa: “Ragazzi, purtroppo sono di fretta perché devo
andare al funerale e per giunta non sono nemmeno di Patù però la vostra idea è
molto carina, chissà che non diventi un bel progetto di promozione della nostra
terra”. “Certo, grazie, la nostra idea è carina ma se non troviamo qualcuno che
ci aiuti a concretizzarla tutto resterà più difficile”. “Non vi sarà difficile
incontrare qualcuno, è sabato pomeriggio e sono certo troverete un po’ di gente
in giro” (secondo buco nell'acqua, ma ulteriore 1 punto).
Macco non si perde d’animo e torna sui suoi
passi, la piazza è vicina alla chiesa e ci saranno pure delle persone che ci
passeranno, magari dopo essere state al funerale.
Eccola! Da lontano si avvicina
una signora di un’età indefinibile: non più giovanissima, si muove con passo deciso, quasi marziale,
con una cartelletta in mano ed una borsa a tracolla; Macco le va incontro e lei
sfodera un sorriso accogliente e generoso che lascia qualche speranza. “Signora,
ci perdoni se la importuniamo per qualche istante, avremmo bisogno di informazioni su Patù. Vorremmo scambiare
qualche parola con gente del posto che sia disponibile e che abbia voglia di
dedicarci qualche minuto”.
Nel frattempo
le descriviamo sommariamente lo spirito di Chiccèccè. “Volentieri! Avete
un’espressione così entusiasta; ho appena finito di fare catechismo ai ragazzi
e stavo tornando verso casa; se vi va potete venire con me, magari prenderemo
un caffè insieme, mi racconterete di questa vostra bella idea e vedrò di
rendermi utile in qualche modo”. (1 punto)
Finalmente la giusta piega e la
speranza di recuperare qualche punto. Valentina Grecuccio è un’adorabile
professoressa di Lettere in pensione, una vita trascorsa tra i banchi a
spiegare ai ragazzi che un uomo è il risultato di ciò che è, di ciò che vive,
di ciò che ama e di ciò che sa conservare dopo aver appreso.
Lungo il breve tragitto che,
dalla piazza principale conduce a casa sua, Valentina ci parla di Patù e della
sua storia che viene da lontano, ci indica -descrivendocene la bellezza degli
ambienti interni- il superbo palazzo in cui ebbe i natali Liborio Romano,
insigne giurista e deputato e tra i più fecondi e controversi
protagonisti del Risorgimento italiano.

La casa che ha visto nascere e morire questo
famoso figlio di Patù è certamente testimonianza importantissima del panorama
storico-culturale del Capo di Leuca.
Valentina, nubile, vive con altre
due sorelle: Lucia, vedova, la sarta di
famiglia, si unisce a noi e Matilde che, però, non vediamo.
La casa delle sorelle Grecuccio (5
punti) è un nido accogliente, spartano ed essenziale ma che sa metterci a
nostro agio: pochi mobili, molta luce e tanto calore umano, il calore di chi ha
voglia di compagnia. E Macco è qui per questo! Finalmente un po’ di calma per
raccontare di questa nostra folle idea di narrare di un Salento dei salentini,
di una terra che aspetta d’essere svelata in ogni suo accento, di un luogo che
s'incunea idealmente tra un Oriente esuberante ed un Occidente ancora
timido.
“Ah, ma allora posso darvi la
ricetta della “Cuddhura”, il dolce tipico che un tempo si preparava in
prossimità della Pasqua”, la signora Lucia legge la felicità nei nostri occhi
e, con meticolosa dovizia di particolari, ci descrive la ricetta di questa
prelibatezza che i ragazzi di oggi non conoscono ma che era la gioia di quelli
di un tempo. Pochi e poveri gli ingredienti che, però, erano il collante
di una familiarità spesso disconosciuta e disattesa dal mondo contemporaneo e
che, soprattutto, garantivano alle famiglie di un tempo la gioia delle
festività che passava anche attraverso quel tipo di condivisione.
Mentre la signora Lucia ci
delizia con i particolari della sua ricetta, infarcendola con
racconti di una vita vissuta che si riverbera attraverso una memoria di ferro,
Valentina –nell’adiacente cucina- prepara per tutti noi il caffè (5 punti) che
accompagnerà con dei biscottini (5 punti) riuscendo davvero a farci sentire
come se fossimo in casa nostra.
Prima di congedarci con i saluti di
rito ed un selfie di commiato la professoressa Grecuccio ci fa omaggio di quel
vasetto-totem, della prelibata e delicatissima marmellata di mele cotogne che
soltanto nel Salento sappiamo fare così buona: che dire? Una botta di punti
(35) che probabilmente ci farà spiccare il volo verso la vittoria della tappa,
e sarebbe pure una gran bella iniezione di gioia visto che Macco è in debito ed
in forte affanno.
Riprendiamo a passeggiare per le
vie di Patù - sperando di non incontrare gli agguerriti avversari di Micco per
non dover correre il rischio d’esser da loro seguiti (!)- ed una sorta di fiuto collettivo, che ormai
ci caratterizza , m’induce a suonare il campanello che, discreto e minuscolo, è
sul lato di un monumentale portone ligneo: signor Mario Schina, recita la
targhetta.
Mario Schina è un omone dalla notevole stazza che, in prima facie,
indurrebbe ad un vero e proprio timore reverenziale ma che, in poche battute,
si rivela essere un uomo affabile e desideroso di chiacchierare in barba
all’iniziale diffidenza ed ai tratti apparentemente burberi che lo presentano.
(1 punto)
Quella che nasce come residenza di un’antica
famiglia di proprietari terrieri, che uno zio del signor Schina ha lasciato in
eredità al nipote cresciuto come un figlio, sapientemente recuperata mostra
ancora i tratti di un passato importante almeno nell’impianto strutturale.
Vasi, orci, “padali”, "capase" e recipienti in latta d’ogni forma e
fatta, l’ingombrante corredo di un ambiente dominato da un camino monumentale
che non abbiamo la fortuna di vedere acceso.
Da qui all’esibizione di
tutti i manufatti all’uncinetto ed a filet della signora Antonella il passo è
davvero breve. Pazienza certosina, vista d’aquila e desiderio di perpetuare
un’arte sempre più in affanno, sono gli ingredienti per questi capolavori dall’inestimabile
valore che Antonella realizza con meticolosa determinazione; proviamo ad
immaginare l’entità della dote che la figlia porterà al suo promesso sposo:
inutile… troppo ricca e preziosa.
Il nostro tempo dal signor Schina
si conclude con la degustazione di un delizioso limoncello, liquore
profumatissimo preparato dalla padrona di casa (5 punti) e del quale riusciamo
ad ottenere pure la ricetta, ma non in video, ché Antonella è timida e non se
la sente di farsi immortalare in una ripresa.
La bonomia, la calorosa ospitalità e
l’affabilità della famiglia Schina ci accompagnano fin sul limitare
dell’abitazione a mo’ di eccellente viatico per il prosieguo della nostra
passeggiata per Patù.
Il tempo del chiccèccè patuense sta per scadere, Macco
vorrebbe avidamente racimolare ancora
qualche punto. L'occasione è lì, a pochi
passi da casa Schina.
Ad incuriosirci è il color
turchese degli infissi di un'abitazione che spicca per originalità cromatica. Suoniamo il campanello e il signor Renè Palfenier ci accoglie in giardino
(3 punti). Renè è un olandese di Amsterdam, vive a Patù con la moglie da ormai
vent'anni. È stata sufficiente una vacanza in Salento per innamorarsene.
Scegliere di viverci, alternando soggiorni in Olanda per motivi di lavoro, è
stato naturale come bere un bicchier d'acqua quando si ha sete.
Le sue parole
ci commuovono e ci riempiono di orgoglio. Questo sud così estremo può essere
anche scelta di vita per un cittadino
europeo, può essere predilezione
rispetto a tanti altri bellissimi luoghi d'Italia. Questo bistrattato angolo di
terra conserva ancora quella antica magia che ammalia il visitatore.
Macco, grato a Renè per il racconto di vita e per la passione che il signore
olandese ha saputo trasmettere in un italiano perfetto (1 punto), saluta e si
rimette in strada inciampando con lo sguardo in un masso antico.

Mimino ci indica la chiesa di San
Giovanni Battista che stranamente, come non avesse avuto nei secoli smania di
mostrarsi, offre al paese il prospetto delle sue terga.
"Le Centopietre
le troverete proprio di fronte alla facciata della chiesa San Giovanni Battista,
non potete sbagliarvi" ci rassicura bonario Mimino indicando con ampi
gesti della braccia quale direzione prendere, convinto di essere incappato in
una strampalata e frettolosa comitiva di turisti nordici.




Databile al IX sec. pare sia il
sepolcro di Giminiano, il barone
messaggero di pace trucidato dai saraceni alla vigilia della battaglia
finale tra cristiani e sararaceni del 24 giugno 877. Fu edificato in forma
rettangolare esattamente con 100 massi recuperati in seguito alla distruzione
dell'antica città.

Eccoci dunque a gara finita
ricompattati e pronti per dirigerci insieme sulla collinetta di Vereto. Ancora
massi... in mura di cinta, in resti di pareti di abitazioni. Pietre intrise di storia, cariche della maestria
architettonica dei messapi, grondanti quel pathos di battaglie antiche. Immutate
testimoni dei secoli che si sono susseguiti in questa terra di accoglienza e di
passaggio, preziosa porta di accesso a quell'occidente così ambito dalle
popolazioni dell'est, continueranno ad essere sentinelle del tempo che verrà.
Pietre, massi, una chiesetta intitolata alla Madonna di
Vereto e Micco e Macco che tra qualche reciproco sfottò si raccontano i
successi raccolti nel corso del tour patuense, pregustando già
nuove avventure.
Federica, Francesca C., Francesca
S., Rocco, Silvio, Andrea, i componenti della squadra Macco dell'escursione a
Patù, ricchi di questa nuova esperienza e con un notevole bottino di punti in
saccoccia, riporranno le armi per qualche settimana.
Dove li ritroveremo?! A quali
porte busseranno? Una sola certezza: la
prossima meta non potrà che essere più a nord.
Reduce dal secondo posto nella tappa di Muro, la squadra "Macco" guadagna 76 punti nella tappa di Patù, piazzandosi davanti alla squadra avversaria "Micco" (la cui gara potete leggere qui).
E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!
Cento pietre e mille storie: il viaggio di Micco a Patù

Squadra: Micco
Cercatori: Graziano, Cesà, Serena e Monica.
Narratore: Danilo.
“Tu non conosci il sud, le case di calce da cui uscivamo al
sole, come numeri dalla faccia di un dado” scrisse Vittorio Bodini, il poeta
leccese nato un secolo esatto fa. Se però tu volessi conoscere il Sud, Patù
sarebbe il posto giusto per cominciare.
Un paese minuscolo e illustre, fatto di cento pietre e mille storie. Partite dall’unica civiltà che il Salento abbia partorito e dalla quale non sia stato colonizzato, quella dei Messapi; passate dalla lotta contro i saraceni e dalla leggendaria presenza di Carlo Magno; attraversate dal patto fra politica e malavita che permise l’unità d’Italia; arrivate ai tempi recenti del sogno industriale, quando venimmo (ancora Bodini) “presi dalle spire del boom”; e giunte infine alla riscoperta dolce degli ultimi anni, nei quali un muretto a secco, uno spicchio di mare e una tradizione contadina ritornano a essere tesori, nascosti e ritrovati.


Vereto è anche l’ideale spartiacque del territorio di Patù; da una parte l’area più conosciuta: il mare, la caletta di San Gregorio e l’intenso panorama che ha incantato Vinicio Capossela tanto da farlo diventare patuscio onorario; dall’altra la zona meno nota e più segreta, quella del paesino nell’entroterra. È lì che ci dirigiamo tutti insieme, per dividerci in due squadre: il misticismo è bello, ma competition is competition.
Punto di partenza per tutti, la piazza al centro di Patù, cuore del paese, dominata dalla chiesa e dalla torre dell’orologio: sono appena passate le 16 e abbiamo meno di due ore per totalizzare il punteggio maggiore possibile. Monica parte subito a carrarmato: ci siamo appena inoltrati in un vicoletto che apostrofa due ragazzini.
Sulla terrazza di una casetta bianca di calce, martellano di santa ragione il comignolo che spunta dal tetto. “Che state facendo lì sopra?” chiede lei, squadrando critica le operazioni con l’occhio esperto dell’imprenditrice edile.
“Stiamo sistemando la casa, ci veniamo a stare con gli amici” le risponde un terzo ragazzino (facendoci guadagnare il primo punto del tour), sbucato inopinatamente dalla porta aperta sulla strada.
Danilo intanto si inerpica sulla scala, sfidando i tarli, per salire a sbirciare i “lavori” sul tetto: i due ragazzi ridono e non si sottraggono alla foto di rito (2 altri punti in cassa); e intanto il terzo di loro fa accomodare Serena, Graziano e Cesà (che totalizzano così altri 5 punti) nei due minuscoli locali che compongono l’abitazione e spiega i progetti del gruppo.
“Questa casa era della mia bisnonna, c’è una cucina e una stanza da pranzo, ci abbiamo portato un divano. La sera ci organizziamo insieme e ci veniamo a sguariare”. È un’abitudine che continua a vivere, specie nei paesi della provincia: una vecchia casetta ormai non abitata, una comitiva che ci porta musica, giochi, qualcosa da mangiare e bere; un modo alternativo ed economico per stare insieme, divertirsi e passare la serata.
Salutiamo i tre industriosi ragazzi e ricominciamo a camminare per i vicoli bianchi di Patù. Difficile immaginare un Salento più profondo: Leuca è a una manciata di chilometri da qui, ma rispetto all’estrema punta della Puglia, alla sua aria nobiliare e marinara, Patù è più domestica e alla mano.

“None none, nu ne sacciu cunti antichi” arriva subito a smentirci la risposta della nonnina un po’ diffidente che Cesà e Monica hanno abbordato, appena girato l’angolo. Lei non conosce racconti, filastrocche o leggende antiche e ci scruta poco convinta dalla sua poltrona, affiancata dalla badante dell’est, noi ci accontentiamo di 1 punto e proseguiamo.

È una stradina stretta e suggestiva, quella che percorriamo: “questa si chiama rua dei travai”, ci spiega il vecchietto dagli occhiali azzurrini al quale Monica e Cesà sbarrano letteralmente il passo.
“E che vuol dire?” chiede lei; lui la guarda un po’ smarrito: “Oh! Via dei lavori, no? È dialetto di qua… signurìa di dove sei?”.
Nessuno di noi viene da Gallarate, beninteso, ma in nessuna delle nostre varianti di salentino è così evidente l’influenza francese, degli Angioini che evidentemente traghettarono le loro “rue des travails” qui nel Capo di Leuca.

L’uomo si gratta la testa e fa mente locale: “oltre alla Centopietre? Beh, c’è la casa di don Liborio” dice. “Ma certo – interloquisce Danilo - a Patù nacque Liborio Romano, l’unico che riuscì a fare il ministro sia dei Borbone che dei Savoia”.

Le uniche informazioni si ritrovano in una lapide in marmo di commemorazione ufficiale, infarcita di “dolorosa maturazione degli italici destini” e “anima affisa alla futura patria”, che fa riferimento all’esilio e alla prigionìa subiti dal giurista legato alla massoneria risorgimentale.
“Allu Giuvanni dovete andare, per saperne di più” ci dice un signore, che ha assistito alla nostra delusione dallo scalino del circolo ricreativo antistante al palazzo Romano. “Allu Giuvanni? Cioè?”. “Giovanni Spano, da Mamma Rosa: fidatevi, è un museo vivente” ci ribatte l’uomo, regalandoci 1 punto e una traccia che si rivelerà preziosissima.

Il padrone avrà sciolto il feroce cane da guardia? Macché il feroce latrato arriva da un cagnetto che scodinzola all’impazzata, come se volesse decollare usando la coda come elica; ha il capo racchiuso da un imbuto trasparente, di quelli che si usano per impedire agli animali di rodersi fino a farsi male.
Subito dietro di lui arriva il padrone: Giovanni Spano, esperto di ricette contadine e ministri borbonici, ci guarda diffidente. Quando gli spieghiamo il motivo della nostra visita, però, si illumina (1 punto per noi): “accomodatevi, venite dentro. Maggio, stai buono!” aggiunge, rivolto al cagnetto che tenta di farci le feste nonostante l’imbuto. “Si chiama Maggio perché è nato a maggio – ci spiega - mo’ sta triste, perché ha avuto una piccola infezione e abbiamo dovuto mettergli ddhu cosu”.
L’interno del ristorante, nel quale Giovanni ci introduce (facendoci guadagnare 5 punti), è lindo e profumato: illuminato dalla finestra, campeggia un grande talaru, il telaio sul quale fino a pochi decenni fa le donne tessevano. “Che meraviglia”, dicono Serena e Monica.
Gli interessi di Graziano puntano altrove: “che si mangia di buono, qui?”. “Tutti i piatti tradizionali – risponde il nostro ristoratore – la ciciri e tria, i pezzetti di cavallo, la lagurda…”. “La ciciri e tria la conosciamo bene: ci hanno spiegato come si prepara a Muro Leccese" dice Cesà. "La lagurda invece non l’ho mai sentita - dice Serena - come si prepara questo piatto?”.
E Giovanni Spano, sotto gli occhi adoranti del cagnetto Maggio, attacca con la minuziosa descrizione della ligurda, piatto della tradizione comune a tutto il Salento contadino, che assume nomi diversi in base alle zone della provincia: la ricetta intera, che ci vale 10 punti, la potete leggere(e sentire) qui.
La saporosa lagurda ci ha ricordato che abbiamo sete: Giovanni, fedele al precetto evangelico, apre una bottiglia d’acqua e ci fa guadagnare altri 5 punti.
"Ma quindi è vero o no che Liborio Romano era il ministro
della Camorra?" chiede Danilo, andando dritto al punto più controverso della
storia del politico di Patù. Giovanni, passando senza alcuno spiazzamento dai
crostini fritti alla storia risorgimentale, scrolla la testa: “Eeeeh, non è che
stanno così le cose: la fate semplice voi” dice, gonfiando le gote come chi ne
avrebbe molte da dire, e forse troppe. “Lui si servì della malavita, ma per
salvare Napoli e l’Italia” è la sua premessa.
Ma il racconto, che si preannuncia lunghissimo (Spano è il presidente dell’associazione culturale “Liborio Romano” e il curatore di questo completissimo sito internet), viene interrotto dallo squillo del suo cellulare. “Sì professore, esco subito” risponde Giovanni al telefono e poi, rivolgendosi a noi: “scusate, c’è il professore qui fuori”.
Incuriositi, lo seguiamo: il “professore” è Fabio D’Astore, docente dell'Università del Salento, componente dell’Istituto di culture euromediterranee e presidente provinciale della società “Dante Alighieri”. Nonché massimo esperto di Liborio Romano: insieme a Bruno Ferilli, sta riportando i cartelli di una mostra sul ministro di Patù a quella specie di museo informale che è la residenza di Giovanni Spano. Danilo, che a suo tempo ne subì l'interrogazione durante un esame universitario, saluta entrambi (totalizzando altri 2 punti) ma stavolta rovescia le parti e interroga il docente.
“Tre anni fa abbiamo fatto il processo pubblico a Liborio Romano, qui nella piazza principale di Patù – spiega il sorridente professore – La domanda era “Statista o Trasformista?” e c’era un vero tribunale a giudicare, presieduto da un magistrato e due storici”. “E com’è andata a finire?” chiede Danilo. “Io ero nel collegio di difesa – gongola il professore D’Astore – e la sentenza è stata di assoluzione”. Ci sarebbe da passare tutto il pomeriggio lì ad approfondire l’ambivalente figura del ministro liberale che convinse il re Francesco II di Borbone a abbandonare il regno, assoldò i camorristi per mantenere l’ordine pubblico a Napoli e consegnò la capitale del Meridione a Garibaldi permettendo la nascita del Regno d’Italia senza spargimenti di sangue.
Ma il tempo stringe e la gara deve continuare: salutiamo i tre “Romanisti”, a loro modo partecipi di un ripensamento profondo sulle dinamiche dell’unità d’Italia (che alcune correnti storiografiche e giornalistiche del Mezzogiorno chiamano “annessione”) e ci incamminiamo alla ricerca dell’altro monumento notevole del paesino del Capo: la Centopietre.
Non ci arriveremo tanto presto, nonostante le precise indicazioni (che ci valgono 1 punto) che ci dà l’omino del gas, fermato da Serena mentre porta la bombola piena di propano: la rete del metano, infatti, è una novità degli ultimi anni in tutto il sud Salento e in alcuni casi attende ancora di diventare realtà. “Mmh, state lontani – ci dice - la Centopietre è all’altro capo di Patù”. Fatte le debite proporzioni, calcoliamo di essere a qualche centinaio di metri di distanza e rientriamo nel centro storico; ma i punti languono ed ecco perché, senza troppi complimenti, Danilo si rivolge a un ragazzo che sta uscendo da casa: “ehi, ciao! Ci faresti vedere il giardino?”. Lui ride imbarazzato, non sa che pensare, ma l’istintiva ospitalità del sud gli fa aprire il cancello: “prego!”.
Perfetto: 1 punto per la chiacchiera e 3 per il giardino. Serena e Monica sfoderano ciglia lunghe e toni insinuanti, Graziano e Cesà i loro migliori sorrisi, mentre intorno ai nuovi ospiti fa le feste Lulù, la cagnetta di casa. “Ma se ti chiedessimo anche un caffè?” butta lì Serena “stiamo gareggiando e ci darebbe un po' di punti”. Salvatore capisce, si diverte e ci apre la porta di casa, confermando l’insopprimibile ospitalità meridionale che questo ragazzone dagli occhi chiari non ha dimenticato, nonostante da undici anni viva e lavori a Milano.
“Se provate a farlo lì,
questo gioco, vi va male” dice, facendoci accomodare in sala da pranzo (e
facendoci guadagnare 5 punti). Salvatore ha 30 anni e una storia comune a molti
ragazzi meridionali, che ci racconta con un curioso accento a metà tra il
capuano e il milanese, mentre prepara il caffè. Finite le scuole superiori è
partito per il Nord Italia a cercare lavoro; l’ha trovato (“sto nella polizia
municipale, quello che lì chiamano bauscia”) e ha messo su famiglia (“ho moglie
e due figli piccoli”).
La sua sorridente serietà quasi ci commuove: qui a Patù ha lasciato un pezzo di cuore, i genitori, un fratello (le cui foto nelle più disparate cerimonie, dal matrimonio alla comunione, tappezzano la stanza) e ci torna appena può. Mentre Danilo sbircia il lindo salotto buono, al quale non manca nulla, dalla statuetta di padre Pio alla foto dei due capostipiti in cornice d’argento, Serena si serve senza risparmio delle patatine che Salvatore ci ha offerto (altri 5 punti).
Poco dopo, il caffè è servito: foto di gruppo obbligatoria, 5 punti per noi e tanti ringraziamenti alla gentilezza di questo ragazzo dal sorriso aperto.
Ma il racconto, che si preannuncia lunghissimo (Spano è il presidente dell’associazione culturale “Liborio Romano” e il curatore di questo completissimo sito internet), viene interrotto dallo squillo del suo cellulare. “Sì professore, esco subito” risponde Giovanni al telefono e poi, rivolgendosi a noi: “scusate, c’è il professore qui fuori”.

Incuriositi, lo seguiamo: il “professore” è Fabio D’Astore, docente dell'Università del Salento, componente dell’Istituto di culture euromediterranee e presidente provinciale della società “Dante Alighieri”. Nonché massimo esperto di Liborio Romano: insieme a Bruno Ferilli, sta riportando i cartelli di una mostra sul ministro di Patù a quella specie di museo informale che è la residenza di Giovanni Spano. Danilo, che a suo tempo ne subì l'interrogazione durante un esame universitario, saluta entrambi (totalizzando altri 2 punti) ma stavolta rovescia le parti e interroga il docente.
“Tre anni fa abbiamo fatto il processo pubblico a Liborio Romano, qui nella piazza principale di Patù – spiega il sorridente professore – La domanda era “Statista o Trasformista?” e c’era un vero tribunale a giudicare, presieduto da un magistrato e due storici”. “E com’è andata a finire?” chiede Danilo. “Io ero nel collegio di difesa – gongola il professore D’Astore – e la sentenza è stata di assoluzione”. Ci sarebbe da passare tutto il pomeriggio lì ad approfondire l’ambivalente figura del ministro liberale che convinse il re Francesco II di Borbone a abbandonare il regno, assoldò i camorristi per mantenere l’ordine pubblico a Napoli e consegnò la capitale del Meridione a Garibaldi permettendo la nascita del Regno d’Italia senza spargimenti di sangue.
Ma il tempo stringe e la gara deve continuare: salutiamo i tre “Romanisti”, a loro modo partecipi di un ripensamento profondo sulle dinamiche dell’unità d’Italia (che alcune correnti storiografiche e giornalistiche del Mezzogiorno chiamano “annessione”) e ci incamminiamo alla ricerca dell’altro monumento notevole del paesino del Capo: la Centopietre.

Non ci arriveremo tanto presto, nonostante le precise indicazioni (che ci valgono 1 punto) che ci dà l’omino del gas, fermato da Serena mentre porta la bombola piena di propano: la rete del metano, infatti, è una novità degli ultimi anni in tutto il sud Salento e in alcuni casi attende ancora di diventare realtà. “Mmh, state lontani – ci dice - la Centopietre è all’altro capo di Patù”. Fatte le debite proporzioni, calcoliamo di essere a qualche centinaio di metri di distanza e rientriamo nel centro storico; ma i punti languono ed ecco perché, senza troppi complimenti, Danilo si rivolge a un ragazzo che sta uscendo da casa: “ehi, ciao! Ci faresti vedere il giardino?”. Lui ride imbarazzato, non sa che pensare, ma l’istintiva ospitalità del sud gli fa aprire il cancello: “prego!”.
Perfetto: 1 punto per la chiacchiera e 3 per il giardino. Serena e Monica sfoderano ciglia lunghe e toni insinuanti, Graziano e Cesà i loro migliori sorrisi, mentre intorno ai nuovi ospiti fa le feste Lulù, la cagnetta di casa. “Ma se ti chiedessimo anche un caffè?” butta lì Serena “stiamo gareggiando e ci darebbe un po' di punti”. Salvatore capisce, si diverte e ci apre la porta di casa, confermando l’insopprimibile ospitalità meridionale che questo ragazzone dagli occhi chiari non ha dimenticato, nonostante da undici anni viva e lavori a Milano.
La sua sorridente serietà quasi ci commuove: qui a Patù ha lasciato un pezzo di cuore, i genitori, un fratello (le cui foto nelle più disparate cerimonie, dal matrimonio alla comunione, tappezzano la stanza) e ci torna appena può. Mentre Danilo sbircia il lindo salotto buono, al quale non manca nulla, dalla statuetta di padre Pio alla foto dei due capostipiti in cornice d’argento, Serena si serve senza risparmio delle patatine che Salvatore ci ha offerto (altri 5 punti).
Poco dopo, il caffè è servito: foto di gruppo obbligatoria, 5 punti per noi e tanti ringraziamenti alla gentilezza di questo ragazzo dal sorriso aperto.
Usciamo dall’abitazione rincuorati: anche se non servisse a
nient’altro, questo blog sarebbe utile a illuminare le mille piccole storie che la Storia con la maiuscola non contempla. Pochi passi oltre il cancello ed eccone
un’altra, che ci si para davanti: sono Cesà e Serena a fermare il vecchietto per
chiedergli indicazioni, totalizzando 1 punto; per una curiosa combinazione il 70enne Ippazio (“ma
tutti mi chiamano Pati”) è partito emigrante da Patù a 19 anni, proprio come il
30enne Salvatore, la cui ospitalità abbiamo appena sperimentato.
“Partimmo che eravamo duecento, da Patù e dai paesi di qui sotto – racconta – Vent’anni in Isvizzera mi sono fatto, nel cantone di Friburgo e a Losanna. Che facevo? Il contadino ho fatto, come sempre. E pure quando me ne sono tornato a Patù ho continuato a fare il contadino. Solo che ora ho un agriturismo ai piedi di Vereto e stiamo bene: mio figlio si è laureato e gira il mondo, ve l'ho detto?”. Pati ha un sorriso contagioso, basco in testa, occhi allegri e denti anarchici: Monica gli chiede qualche storia legata a Patù e al suo più famoso monumento, la Centopietre. E lui tira fuori dai cassetti della memoria un curioso racconto, misto di storia e leggenda, nel quale si intrecciano donne dalla forza erculea, antiche città distrutte e megaliti trasportati dalla collina alla pianura: un cuntu, che potete ascoltare per intero nel video qui sotto (e che a noi vale ben 15 punti).
“Partimmo che eravamo duecento, da Patù e dai paesi di qui sotto – racconta – Vent’anni in Isvizzera mi sono fatto, nel cantone di Friburgo e a Losanna. Che facevo? Il contadino ho fatto, come sempre. E pure quando me ne sono tornato a Patù ho continuato a fare il contadino. Solo che ora ho un agriturismo ai piedi di Vereto e stiamo bene: mio figlio si è laureato e gira il mondo, ve l'ho detto?”. Pati ha un sorriso contagioso, basco in testa, occhi allegri e denti anarchici: Monica gli chiede qualche storia legata a Patù e al suo più famoso monumento, la Centopietre. E lui tira fuori dai cassetti della memoria un curioso racconto, misto di storia e leggenda, nel quale si intrecciano donne dalla forza erculea, antiche città distrutte e megaliti trasportati dalla collina alla pianura: un cuntu, che potete ascoltare per intero nel video qui sotto (e che a noi vale ben 15 punti).
Il nostro viaggio volge ormai all’obbligato epilogo: solchiamo
ancora una volta il centro di Patù, con la sua calda chiesa di morbido tufo e
la torre dell’orologio che segna ormai quasi le 6 di pomeriggio.
Tutto ci porta verso sud, verso l’area di Patù che vede insieme l’antica Centopietre, la chiesa di San Giovanni e il Campo Re.
Proprio da quest’ultimo dobbiamo partire, per tornare da dove siamo partiti: Vereto. Secondo un'antica leggenda (attestata, a dir la verità, da un anonimo manoscritto cinquecentesco pubblicato a Padova) qui, in questo campo di ulivi, il re Carlo Magno combatté una delle battaglie più importanti della cristianità, nella quale sconfisse i saraceni che avevano occupato l’antica città di Vereto, edificata dai Messapi e poi occupata dai Romani e dalle loro discendenze latine.

Secondo la leggenda (ben ricostruita dal sito di storia locale Salogentis), la battaglia avvenne nel giorno di San Giovanni, il 24 giugno 788, ragion per cui Carlo Magno avrebbe edificato la chiesa paleocristiana dedicandola al santo e costruì la Centopietre come monumento funerario del suo luogotenente Geminiano, usando per costruire il mausoleo cento megaliti messapici provenienti da Vereto.
Ed è proprio qui, in questo triangolo denso di storia e di leggenda, che ci ritroviamo con i nostri amici della squadra concorrente di Macco: trionfanti per il loro tour e convinti di aver la vittoria in tasca. Ma la gara si scioglie nella visita alla Centopietre, dichiarato monumento nazionale nel 1873, e all’austera ed emozionante chiesa di San Giovanni.
E si ricompone il gruppo intero, senza distinzioni di Macco o di Micco, nella foto collettiva tra i due monumenti principali di Patù, questo paesino di neanche 2mila abitanti che ci ha regalato un pomeriggio inaspettatamente intenso. Qualche porta si è aperta e qualche altra è rimasta chiusa; qualche porta è in rovina e qualche altra risplende di nuova vita; qualche porta è serrata e qualche altra ha la chiave nella toppa. Tutte ci hanno dato qualcosa: l’insegnamento della grande Storia o la grazia delle piccole storie.
Reduce dal primo posto nella precedente tappa di Muro Leccese, la squadra "Micco" totalizza 74 punti nella tappa di Patù, piazzandosi per un'incollatura alle spalle della squadra avversaria, "Macco" (il cui tour potete leggere qui). E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!
Tutto ci porta verso sud, verso l’area di Patù che vede insieme l’antica Centopietre, la chiesa di San Giovanni e il Campo Re.
Proprio da quest’ultimo dobbiamo partire, per tornare da dove siamo partiti: Vereto. Secondo un'antica leggenda (attestata, a dir la verità, da un anonimo manoscritto cinquecentesco pubblicato a Padova) qui, in questo campo di ulivi, il re Carlo Magno combatté una delle battaglie più importanti della cristianità, nella quale sconfisse i saraceni che avevano occupato l’antica città di Vereto, edificata dai Messapi e poi occupata dai Romani e dalle loro discendenze latine.

Secondo la leggenda (ben ricostruita dal sito di storia locale Salogentis), la battaglia avvenne nel giorno di San Giovanni, il 24 giugno 788, ragion per cui Carlo Magno avrebbe edificato la chiesa paleocristiana dedicandola al santo e costruì la Centopietre come monumento funerario del suo luogotenente Geminiano, usando per costruire il mausoleo cento megaliti messapici provenienti da Vereto.
Ed è proprio qui, in questo triangolo denso di storia e di leggenda, che ci ritroviamo con i nostri amici della squadra concorrente di Macco: trionfanti per il loro tour e convinti di aver la vittoria in tasca. Ma la gara si scioglie nella visita alla Centopietre, dichiarato monumento nazionale nel 1873, e all’austera ed emozionante chiesa di San Giovanni.
E si ricompone il gruppo intero, senza distinzioni di Macco o di Micco, nella foto collettiva tra i due monumenti principali di Patù, questo paesino di neanche 2mila abitanti che ci ha regalato un pomeriggio inaspettatamente intenso. Qualche porta si è aperta e qualche altra è rimasta chiusa; qualche porta è in rovina e qualche altra risplende di nuova vita; qualche porta è serrata e qualche altra ha la chiave nella toppa. Tutte ci hanno dato qualcosa: l’insegnamento della grande Storia o la grazia delle piccole storie.
Reduce dal primo posto nella precedente tappa di Muro Leccese, la squadra "Micco" totalizza 74 punti nella tappa di Patù, piazzandosi per un'incollatura alle spalle della squadra avversaria, "Macco" (il cui tour potete leggere qui). E si prepara alla prossima sfida del "Salento Express". E, ovviamente, #chicceccè!
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